Quel “ma”

Forse l’equivoco di quel “ma” è stato nefasto. Premesso che “ma” è una parola fondamentale della vita umana e della sua complessità, della ricerca della verità e quindi dell’onestà e libertà intellettuale degli uomini, una parola quindi decisiva della democrazia, e premesso però anche che è una parola delicata, che a parole come “razzismo” e “antisemitismo” o a nomi come Auschwitz o Kolima o Srebreniza non può mai essere associata, e se anche, a volte, potrà seguire la parola “omicidio”, non potrà mai farlo con la parola “stupro”; premesso tutto questo, si può ben dire che avere accostato quasi da subito a “immigrazione” la parola “razzismo” non poteva che portare all’uso del “ma”.

Se si parla di flussi immigratori si parla di fenomeni che, da sempre, fra l’altro, si manifestano in ogni parte del pianeta, dando adito a paure, a scontri, a ghettizzazioni, ma anche a incontri, ad amicizie, a integrazioni. Ora, se a coloro che esprimono un malessere, delle paure, un’insofferenza a causa di problemi insorti o anche solo immaginati, da subito si fa balenare l’accusa di razzismo, verrà loro del tutto spontaneo dire: “Guarda, non sono razzista, ma…”. Ma cosa? Ma che qui si sta parlando di immigrazione!
Ecco che quel “ma”, in questo caso legittima reazione a un’associazione illegittima, diventa la prova, colta in flagranza, del reato di razzismo. A pensar male verrebbe da sospettare che, per tanti, indurre al “ma” sia stato lo stratagemma per avere un nemico da stanare.

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