Tre giorni dopo il voto sulla Brexit, Sadiq Khan, sindaco di Londra, e Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, denunciando la “letargia degli Stati-nazione”, hanno detto che il ventunesimo secolo sarà delle città-mondo. Certo è sintomatico che il 59% dei londinesi abbia votato per il “remain” e che a Parigi il Front National sia fermo al 6%. Se lo slogan è agire localmente e pensare globalmente, le cosiddette città-mondo sono luoghi cruciali. Sono i luoghi di quella ricerca e innovazione che trainano anche i Pil nazionali. Non solo. Lo scorso giugno l’Unione europea e l’inviato speciale delle Nazioni Unite per il clima, Michael Bloomberg, hanno dato vita alla Convenzione globale dei Sindaci per il clima e l’energia, più di 71.000 città in 119 paesi. Nell’accogliere i rifugiati, le città di Madrid e Barcellona hanno preso delle iniziative e si sono già spinte più in là dello Stato. La sindaca di Parigi ha annunciato la creazione di un campo profughi prima che il governo avallasse la decisione. Si moltiplicano anche le esperienze in cui le città si mettono insieme al di là dei confini nazionali: Parigi e altre città, ad esempio, stanno negoziando un acquisto collettivo di attrezzature per la pulizia. Tutto bene dunque? Non proprio. Che ne è ad esempio degli spazi tra una città e l’altra? “Non rischiamo di fare delle periferie un deserto o comunque un luogo di frustrazione e risentimento verso le città?” si è chiesto il geografo Laurent Chalard, ricordando che fino ad oggi è stato sempre lo Stato-nazione ad avere l’ultima parola. Il dibattito è aperto.
(liberation.fr)