Un museo del fascismo a Predappio?

La proposta di creare un museo del fascismo nella ex Casa del fascio di Predappio sta suscitando un acceso dibattito fra gli storici e non solo. Pubblichiamo qui la presa di posizione della Fondazione Alfred Lewin seguita da una lettera di Marcello Flores, uno dei promotori del progetto; iniziamo poi una serie di interviste a storici di orientamento diverso sia sul progetto di Predappio sia, più in generale, su come raccontare il fascismo. Il primo è Mario Isnenghi


Un museo del fascismo? La posizione della Fondazione Alfred Lewin

L’argomento “Predappio mai” per un museo del fascismo ha una sua forza che andrebbe riconosciuta serenamente: il luogo di nascita sta dentro la narrazione fascista dell’uomo del destino, Predappio e la tomba sono ormai il luogo sacro consolidato della nostalgia. Non farebbe male ripetere che da Predappio e dal forlivese non “è passata la storia” come ebbe a dire il sindaco di Predappio, ma solo due socialisti massimalisti e un anarcosindacalista. Predappio non era fascista sotto il fascismo e che lo sia diventata oggi agli occhi del mondo ha veramente dell’incredibile. Nella vallata a fianco, Santa Sofia, che ha dato 120 cittadini a Garibaldi, aveva 30 tesserati al fascio. Se poi è vero che il sindacalismo rivoluzionario ha dato un considerevole contributo al fascismo al punto che tuttora è in discussione dove sia nato, se in Italia o in Francia, allora è giusto dire che Forlì e la Romagna dell’800, che hanno scritto una pagina importante nella storia d’Europa, se non del mondo, più per questo che per aver dato i natali a un uomo, hanno a che fare con la nascita del fascismo. Viceversa, la “Forlì del 900” tanto pubblicizzata per via di un po’ di architettura, sembra un’idea più che altro inventata a tavolino, ma assai rischiosa; si vedono scolaresche stazionare di fronte all’insignificante palazzotto fascista mentre il museo del Risorgimento resta chiuso.

"Ferlandia", negozio di souvenir fascisti a Predappio
“Ferlandia”, negozio di souvenir fascisti a Predappio (foto di Fausto Fabbri)

Allora la domanda è: l’argomento “mai a Predappio” può diventare l’argomento “a maggior ragione a Predappio”? A nostro avviso, forse sì. Ma forse, cioè a una condizione.
La condizione è che il museo abbia un’anima, un’anima che si senta, che si respiri, che sia anche dichiarata in entrata: l’anima della libertà dell’uomo. A quel punto alla domanda che molti si fanno: “Ma questo museo sarà antifascista?”, si potrà rispondere: “Sì, certo”, ma specificando che quell’”anti” non ci piace e non lo vogliamo usare, perché riduttivo rispetto al grande “pro” umanitario universalista.
Questo, secondo noi, dovrebbe essere l’afflato dell’ex-Casa del Fascio.
Allora sì “a maggior ragione Predappio”, senza che questa ragione suoni provocatoria ai nostalgici, non per rispetto verso di loro ma per rispetto di un progetto nobile che deve essere per tutti. Tutto qui.
Ma è proprio questo che sembra, da quel che abbiamo capito, non si voglia fare.
Adesso la discussione sarà se chiamarlo museo o centro di documentazione e finirà che si farà un museo che non si chiamerà così. Ma a nostro avviso un centro di documentazione che tratta anche dell’attualità -che da solo, fra l’altro, provocherebbe una sovradimensione insostenibile- non è affatto in alternativa al museo che narra la storia del Ventennio: le due cose possono convivere e completarsi a vicenda. Il posto, fra l’altro, lo permette.
Quindi il problema non è lì. Il problema riguarda la terza cosa che si può fare in questi casi: il monumento/memoriale. È lì la chiave del problema, perché illuminerebbe tutto il resto, per di più “autorizzando” quel massimo rigore e spregiudicatezza scientifici nella narrazione storica così giustamente cari alle intenzioni dei progettisti.
Insomma quello che fa problema è la scelta di fare solo un museo rigoroso scientificamente.
A parte che a sentir parlare di scienza nelle cose umanistiche vien da pensare al “socialismo scientifico”, ma veramente pensiamo che l’etica condizioni in negativo la ricerca storica? La riduciamo a un pregiudizio? Forse gli esempi sono sbagliati, ma Pierre Vidal-Naquet  (massima autorità mondiale di storia antica, militante dei diritti umani, il padre torturato dai nazisti e morto con la madre ad Auschwitz) quando unico, e sconsigliato da tutti, si è umiliato a smantellare punto per punto, scientificamente, le tesi negazioniste, non aveva forse dichiarato il suo intento, non si conosceva il suo disprezzo? Oppure: agli scienziati della storia italiani è mai venuto in mente di applicare il loro microscopio all’anno in cui Togliatti è andato in Spagna? Il ’37, come lui ha sempre detto, o il ’36? E perché non è venuto loro in mente? L’ha fatto un semplice giornalista, ma, guarda caso, eticamente socialista libertario, che aveva pure il vantaggio di risiedere a Londra e non in una città delle tante università italiane oscurate dalle Botteghe oscure: Gino Bianco.
E per curiosità: in base a criteri scientifici quanti metri quadrati in un museo del fascismo gli storici assegnerebbero a Giacomo Matteotti e al suo omicidio? Sarebbe interessante un sondaggio, ma siamo certi che le misure varierebbero assai.
Fatto sta che l’impostazione del riutilizzo della Casa del Fascio non prevede che possa esserci anche, e sottolineiamo “anche”, una parte monumentale, ma solo un museo improntato al “rigore scientifico”, quasi si voglia trattare il fascismo nello stesso modo in cui si potrebbe trattare la civiltà etrusca.
Nelle linee guida l’orizzonte morale fa capolino in un punto, ma poi si specifica subito che non deve comunque avere il sopravvento, ecc. ecc. Quasi fosse un tic psicologico: state attenti, perché durante il racconto scientifico sarà impossibile non condannare… E vien da pensare per analogia ad altre narrazioni, lontane certo da quella che propongono i progettisti del museo, e dove, però, l’orizzonte morale pure fa capolino in un punto: quello delle leggi razziali, e solo lì.

La cripta di Mussolini a Predappio (Foto: Francesco Fantini)
La cripta di Mussolini a Predappio (foto di Francesco Fantini)
Durante la presentazione dei diari di Mussolini a Predappio, quando uno dei relatori ha consigliato a un altro di non sentirsi in dovere di essere sempre, in ogni momento, antifascista (si discuteva se Mussolini stesse covando il fascismo già in trincea, quindi, alla fin fine, su un aspetto particolare) dal settore della sala dove c’erano sindaco e consiglieri è partito un forte applauso, l’unico a scena aperta. Estrapolavano certamente.
Ecco, noi temiamo che a Predappio si intenda che l’antifascismo non abbia più alcun senso.
Senza voler fare della sintomatologia, e ammettendo la scorrettezza di isolare le parole dal loro contesto, certi punti del documento programmatico suscitano qualche perplessità: espressioni come “memoria condivisa”, buttata lì en passant, come fosse un obiettivo da raggiungere, in contraddizione, fra l’altro, con l’assunto di valori costituzionali ormai condivisi da quasi tutti; la ripetizione insistita di parole come “complessità e contradditorietà”, quando ormai sono concetti chiari anche ai ragazzi delle medie: basta accendere la televisione e chiedersi chi sono i curdi o come mai un marocchino francese è finito in Siria a tagliar teste (in certi casi qualche semplificazione sarebbe necessaria); l’espressione “il punto di vista di chi ha vinto”, che può suonare addirittura sinistra (certo che se vinceva Hitler la storia della shoà sarebbe stata diversa); si parla di “scontro di valori” e vien da chiedersi quali; si parla di “emozione” da suscitare (noi preferiremmo “commozione” ma capiamo che sarebbe “di parte”) e si intende, in un museo in gran parte virtuale, che si stia parlando di immagini, ma vien da chiedersi come si potrà suscitare emozione a proposito dello squadrismo, non avendo a disposizione alcuna immagine o video degli squadristi che trascinano al fiume l’avversario politico per picchiarlo a morte con sacchi di sabbia.
In diverse interviste ai progettisti si è fatto riferimento spesso a quel che si fa in Germania (nel documento si parla dell’Europa).
Citeremo l’intervento di apertura della serata cittadina “Forlì non è la città del duce”: “Oggi i tedeschi potrebbero tranquillamente fare un convegno sull’arte di Leni Riefenstahl, la fotografa di Hitler, o sui progetti di Speer, l’architetto di Hitler. Perché uscendo da quelle mostre basterebbe fare poche centinaia di metri per incontrare un monumento alla colpa. Per la prima volta nella storia dell’umanità un popolo ha monumentalizzato le proprie colpe. Noi?”. Come è possibile che nel documento programmatico del museo non si faccia alcun riferimento alla rimozione italiana? Nel documento, e anche nell’appello, si dà per scontato che la costituzione, quindi la democrazia, i diritti umani, e l’antifascismo perciò, siano ormai entrati nel patrimonio genetico del paese. Non si dà alcun peso al fatto che per vent’anni mezzo paese è andato dietro a un premier per il quale il fascismo, a parte le leggi razziali, ignobili certo, ma volute dai tedeschi, era “vacanze a Ventotene e telefoni bianchi”. Che si sia fatto un memoriale per il generale Graziani non ci dice niente? Per dire delle differenze: ricordiamo sempre un mirabile elzeviro sul Corriere di Franco Fortini in cui rendeva omaggio a una coppia di vecchi amici laburisti, miti intellettuali, lui combattente in Africa, il cui più grande rimpianto nella vita era stato quello di essersi trovati a contatto con Graziani, anni dopo la fine della guerra, e di non aver colto l’occasione per ucciderlo. Si sa, noi non siamo inglesi.Insomma, questa è la nostra posizione. Una posizione che viene da lontano, da quando promuovemmo l’assemblea cittadina intitolata “Forlì non è la città del duce” in polemica con la mostra del 900 della Fondazione della Cassa dei risparmi, e ci mettemmo, subito dopo, a pensare a un festival del 900. In quella occasione si cominciò a parlare anche di un museo nella ex casa del fascio. Alla prima edizione del Festival, a Forlì, organizzammo una presentazione da parte dei progettisti. Ma già allora cominciarono i primi dubbi sull’impostazione, per via di alcune interviste che comparivano sui giornali. Fra di noi ci siamo sempre detti: a patto che sia “un museo degli orrori”. In realtà non è certo quello che deve essere, a meno di non considerare orrori, ma la parola sarebbe comunque inadatta, non solo le violenze e gli omicidi, ma anche tanti aspetti di una vita quotidiana “grigia” (Lisa Foa), fatta di giuramenti obbligatori e adunate, di stato etico e corruzione, di isolamento culturale, di intimidazioni e umiliazioni dei padri di famiglia e di conformismo imposto ai giovani. Sembra poi che per alcuni, un vasto consenso, sia stato pure del 98%, attutisca “l’orrore”; no, lo acuisce.
Per questi motivi a nostro avviso l’ex casa del fascio deve contenere un museo che racconta il ventennio senza remore, un centro di documentazione che vigila sul presente, un grande monumento alla libertà dell’uomo e contro ogni sopraffazione e prepotenza.
Così potrebbe diventare un esempio e un punto di riferimento internazionale. Due problemi
I negozi
Ci siamo abituati al pellegrinaggio e ai negozi di souvenir e non solo il sindaco di Predappio ma un po’ tutti tendiamo a considerarli un fenomeno folcloristico. A parte che un po’ di vergogna a essere l’unico posto in Europa dove si possono vendere le opere dei negazionisti e i Protocolli di Sion la dovremmo comunque provare, ma possiamo pensare che quelle migliaia di fascisti che sfilano in modo folcloristico dietro lo spretato e che più di salutare col saluto romano chi passa, a Predappio non fanno, siano folcloristici anche a Roma o dove abitano? Vediamo cosa sta succedendo in Europa? Agli amministratori predappiesi così ottimisti consigliamo di guardare la scena greca di questi giorni in cui una quindicina di maschi in nero aggrediscono una donna immigrata a pugni e calci.  Possiamo ben pensare che “di quelli” a Predappio ne passino assai. Da questo punto di vista i negozi sono un problema maggiore della tomba, perché “lavorano” anche sull’attualità: i testi negazionisti non sono souvenir del Ventennio.
Poi chiediamo: pensate possibile, innocua, la convivenza fra un museo che si spera frequentato da scolaresche in gita di educazione civica con la presenza, a cento metri di distanza, di supermarket le cui vetrine trasudano violenza e odio, in cui si vendono manganelli con su scritto “me ne frego” o magliette da motociclisti con su scritto “basta morire, adesso uccideremo noi”? Secondo noi la risposta è no. Allora si dovrebbe iniziare una campagna nazionale per la chiusura dei negozi, con proposte di legge, denunce ripetute alla magistratura, pressione sui prefetti. Il sindaco e gli amministratori dovrebbero farsene promotori. Ma è possibile? Ci sono remore di altro tipo?
Anche qui il deficit italiano salta agli occhi. Noi ce ne siamo accorti portando una delle ospiti del festival, una storica parigina, a visitare, su sua richiesta, il supermarket fascista. Chi l’ha accompagnata racconta di essersi comportato come un paesano che, appunto, fa vedere al turista qualcosa del folklore locale: ha cercato con malizia il banco dei negazionisti e poi l’ha chiamata: “Vieni, vieni a vedere”. Ma la signora non l’ha presa alla leggera. S’è oscurata e s’è precipitata dal povero commesso in maglietta da lavoro nera, investendolo con domande del tipo: “Ma lei sa che in Francia andreste in galera a vendere questa roba?”, e lui a bofonchiare qualcosa sulle opinioni, e lei: “No, queste non sono opinioni”, e non voleva venir via.
Già, ma in Francia il trauma della scoperta di quanto zelo c’era stato da parte francese nella deportazione degli ebrei durante Vichy è stato forte. In Italia?
Niente comunque di cui meravigliarsi: quando in Francia piangevano leggendo Solgenitsin, noi non solo non l’abbiamo letto, ma abbiamo dato inizio all’epopea dei comici, che dura tuttora; invece di piangere ci siamo messi a ridere. Il ristorante e la drogheria
La proposta che, a un museo che racconta le sofferenze di un popolo e la terribile persecuzione antiebraica, sia annesso un ristorante e, ancor più, una “rivendita di prodotti locali” come sangiovese e salcicce di maiale, è addirittura scandalosa, per la volgarità e la mancanza di rispetto del racconto drammatico che si farà in quel palazzo.
Ma poi: se le teste rasate, che abbiano visitato o no il museo, andranno al ristorante? Ci rendiamo conto? Molti anni fa, quando Gianfranco Fini non era ancora passato dal pellegrinaggio predappiese a quello a Gerusalemme, un nostro conoscente, un simpatico giovane, aspirante cantante lirico, che per mantenersi faceva il cameriere, ci raccontò di aver servito, in un ristorante di Predappio, una tavolata di nostalgici fra cui c’era anche Fini. Ci disse che aveva fatto fatica a continuare a servire, dal disgusto per i discorsi che aveva orecchiato.Per concludere: i problemi legati al progetto di un museo del fascismo nella ex casa del fascio di Predappio possono essere tanti, ma alla fine per noi si riducono a uno: la premessa morale.
Alcuni souvenir in vendita a "Ferlandia" (foto: Fausto Fabbri)
Alcuni souvenir in vendita a “Ferlandia” (foto: Fausto Fabbri)

Partiamo dalla questione se il museo debba avere un’anima, se debba essere antifascista…
Una lettera di Marcello Flores

Quella che segue è una lettera speditaci da Marcello Flores in risposta a una nostra, poi rimaneggiata nella forma dell’intervento delle pagine addietro.

Cari amici,
provo a mandarvi un primo commento alla vostra lettera. Partiamo dalla questione se il museo debba avere un’anima, se debba essere antifascista.
A me, ormai, il termine “antifascista”, considerando anche chi lo usa con più forza e frequenza, fa venire subito in mente la Ddr, quindi ho un po’ di resistenza a usarlo, ma credo di capire quanto dite. Credo che nel museo si dovrà senz’altro respirare “l’anima della libertà dell’uomo”, anche se sull’antifascismo penso che sarà necessario far parlare qualche grande nome (e su questi penso che siamo d’accordo: preferirei Foa o Salvemini, e ovviamente anche Gramsci, a Secchia o a Moranino) ma non farne una questione centrale.
Nella discussione sul nome non mi va di entrare, perché mi pare che sia uno degli strumenti di battaglia politico-ideologica su cui ci si vuole attestare per fare vedere ai propri seguaci di avere messo il punto. Personalmente penso che non chiamare museo quello che a tutti gli effetti sarà un museo, per quanto particolare, sia sbagliato. Ma vedremo e io pure trovo che non siano in contraddizione il museo che narra la storia del ventennio -io avevo in mente proprio un “museo della storia d’Italia nel ventennio fascista” o qualcosa di simile- e un centro di documentazione e di lavoro didattico, scientifico e divulgativo.
Vorrei anche aggiungere che l’intera discussione mi sembra viziata dall’idea che si possa pensare (come storici, come corporazione, come coscienza critica) di bloccare la decisione di un ente pubblico di svolgere la propria politica e i propri progetti senza nemmeno avere chiaro come saranno. Come sanno tutti (tranne chi non vuole capirlo), questo museo non ha nulla a che fare col monumento a Graziani nel comune di Affile, che pure qualcuno ha tirato in ballo. L’idea che il museo sia di per sé celebrativo, o che lo sia il luogo, credo sia fuori da ogni ragionamento serio e motivato.
Per voi il vero problema è la priorità al rigore scientifico. Non vorrei citare libri in cui è chiaro che il rigore scientifico nelle cose umanistiche è ben diverso da quelle scientifiche dure, per me il faro è Marc Bloch, e mi basterebbe fermarmi lì. Parlare di rigore scientifico, e non credo in modo eccessivo, è un modo per provare a tacitare, lo dico sbrigativamente, le posizioni di un antifascismo di maniera. E per evitare che gli storici possano schierarsi compattamente contro sulla base del fatto che c’è poca scienza (cioè storia) e troppa ideologia o memoria. Mi pare talvolta che si vogliano fare dei processi alle intenzioni sulla base di quello che altri dicono o pensano.
La mancanza di orizzonte morale nel documento. Beh, intanto io credo che il dovere di conoscenza e il debito verso la verità storica siano un grande fatto morale, il più importante, visto che parliamo di tempi in cui in nome dell’antifascismo si giustificavano, da parte dei comunisti per esempio, assassini di migliaia di persone. Nel mio lavoro, in questo caso di insegnante (ma credo anche di scrittore di libri di storia) ho sempre cercato di far capire come “conoscere” sia diverso da giudicare, e che è giusto, possibile o opportuno giudicare, ma solo dopo che si è conosciuto e compreso bene ciò che si vuole giudicare. Il tic psicologico da evitare, per me, è quello di chi vuole che a ogni frase sul fascismo si aggiunga un aggettivo di condanna (io impongo ai miei studenti di non usare aggettivi). Prendiamo ad esempio le leggi razziali. Non vorrei un bel cartello che mi dice quanto siano disgustose le leggi razziali; vorrei qualcosa (scritti, immagini, memorie, testimonianze) che facciano capire -senza rimarcarlo con sottotitoli in evidenza- cosa è la discriminazione, la violenza e il razzismo (su cui sono convinto che non sia necessario dire a un ragazzo che è una cosa cattiva, presumo che lo sappia e anche bene).

La mostra sul 900 della Fondazione mancava proprio del contesto e della conoscenza vera, in cui gli avvenimenti parlano se li si fa parlare, e non se li si isola uno dall’altro. E del resto il richiamo alla “emotività”, che a molti non piace perché poco scientifica, va proprio nella direzione di quell’afflato di libertà di cui parlavate anche voi. Però non può essere, non sarebbe onesto verso la verità e la conoscenza, un museo degli orrori. Non voglio continuare a dire a uno studente che Mussolini è un criminale farabutto, anche perché se lo studente lo avesse un poco in simpatia, potrei urlarglielo quanto voglio ma continuerebbe a pensarlo; voglio mostrargli che alcune cose a cui tiene, forse quelle a cui tiene di più, a quell’epoca non erano permesse, voglio che capisca come si può, in milioni di persone, farsi abbindolare da quella retorica e dove essa porta, mostrando anche i “non orrori” che il regime ha fatto e che ne sono parte ineliminabile, non per equilibrare cattivo e buono, ma per mostrare che l’Italia in quei vent’anni (e gli italiani soprattutto) hanno vissuto e hanno dovuto convivere con una cosa non monolitica, complessa anche se il termine vi sembra, chissà perché, giustificazionista. Non voglio continuare a dire che il fascismo è stata una parentesi (e quindi meglio non parlarne se non nei libri noiosi degli storici), e neppure che è l’inveramento del nostro carattere ambiguo, infido e infingardo da secoli. Voglio fare conoscere attraverso la conoscenza e l’immedesimazione (nel clima, non certo nei valori del regime), e permettere quindi che il giudizio da trarne alla fine, soprattutto i giovani lo sentano loro, non imposto da vecchi che in nome della morale vogliono sottrarre loro la possibilità di conoscere tutto, anche aspetti contraddittori, anche l’entusiasmo che creava, anche il consenso più o meno volontario della quasi totalità della cultura, ecc. ecc. Perché dovrebbe essere come dire, con Berlusconi, che il fascismo era vacanze a Ventotene e telefoni bianchi? Certo, era anche telefoni bianchi, era confino (per fortuna non campi come in Germania o in Urss), era anche condanna a morte soprattutto per sloveni e minoranze; era bonifica ma anche colonialismo aggressivo e razzista, era edifici pubblici che per molti aspetti sono stati l’ultima grande architettura italiana ma che non scusano (e anzi va capito l’intreccio) le leggi razziali e tutto quanto vi si aggiunge con la guerra e la Rsi.
Io voglio che la colpa del fascismo i giovani la comprendano e diventi parte della loro coscienza. Se questo può avvenire in Germania (meglio o peggio non lo so, sinceramente) per via dei monumenti alla colpa non saprei. Bisogna anche far capire che la colpa è qualcosa che riguardava i nonni o i bisnonni; bisogna stare attenti a non insistere nel voler coinvolgere anche i giovani in una colpa che non hanno, storicizzando anche le amnesie e le assoluzioni dell’immediato dopoguerra; a non farne un bisogno attuale con l’idea che, dato che non si è fatto per 70 anni, dovrebbe essere ancora più acceso e acuto, mentre per i giovani non mi pare sia altro che voglia di conoscere. Sulle altre cose (negozi, ristorante, monumento, ma anche una vostra lettura di alcune parti del documento in cui non mi riconosco per nulla) ne parleremo a voce. Vorrei solo aggiungere che nelle discussioni su come impostare il museo è sempre stata presente l’idea di una qualche installazione (non la chiamerei monumento anche se probabilmente dovrà essere monumentale) di taglio contemporaneo, che sia un omaggio (un ricordo, un monito, quello che si vuole), per le vittime del fascismo, fra cui Giacomo Matteotti, che credo dovrà certamente essere una delle figure di spicco del museo.

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