“Il compagno d’Océane si è trasformato nel giro di qualche mese: ha cominciato a trascorrere ore su internet, a guardare video violenti in cui barbuti evocavano il complotto dell’Occidente e invitavano alla jihad”. Così comincia il pezzo di Pauline Verduzier e Tatiana Chadenat uscito su “Le Figaro”, che raccoglie la testimonianza di due donne sui loro compagni divenuti estremisti.
Per Océane la fase successiva sono stati i divieti: niente tv, niente musica, niente visite né ad amici, né a parenti senza la sua autorizzazione. E poi le ore trascorse a cercare di convincerla a cambiare aspetto e abbigliamento. Alla fine Océane mette il niqab, il velo che copre l’intero corpo lasciando aperta solo una fessura per gli occhi. Non ce la faceva più: lui la implorava piangendo. Ma è quando le nasce la figlia che la situazione precipita: il marito vuole mettere il velo anche alla bambina; a quel punto lei se ne va. Purtroppo, quello che succede nel caso di Océane, come di Aurélie, l’altra donna intervistata, è che quando si arriva alla separazione, se i servizi iniziano a essere formati per gestire queste situazioni, la giustizia non è affatto preparata e così capita che questi uomini ottengano comunque il diritto di vedere i figli nei weekend, con grande angoscia delle madri perché è facile procurarsi un documento falso e passare la frontiera.
Dounia Bouzar, del Centro di prevenzione per la lotta contro le derive settarie dell’Islam, non vuole neanche sentirle certe cose: “Bisogna applicare la Convenzione per i diritti dell’infanzia, punto. Coprire la testa di un bambino non è da musulmani, è da disturbati”.
(Le Figaro, 15 gennaio 2015)