“L’idea che abbiamo dei paesi scandinavi è di luoghi accoglienti, progressisti. Ultimamente, però, le cose sono ben diverse, almeno per i migranti”. Così inizia il capitolo scandinavo di un lungo report comparativo pubblicato dal Guardian. Non più economie floride, Danimarca, Norvegia e Svezia hanno le rispettive gatte da pelare: a Copenaghen cresce l’ineguaglianza sociale e la produttività è ferma, Oslo è schiava dell’altalenare del prezzo del petrolio mentre Stoccolma ha un tasso d’invecchiamento molto alto. È in questo clima che molti gruppi destrorsi nordici, come altrove, hanno racimolato gran parte del malcontento popolare, trasformando il tema immigrazione nella bandiera politica più redditizia dell’ultimo decennio. Non senza notevoli paradossi.
La Norvegia, infatti, è tra i più grandi donatori al mondo di aiuti internazionali, e nel 2013 era seconda in Europa (dietro la Svezia) per numero di rifugiati accolti. Ma proprio l’anno scorso qualcosa è cambiato, con la vittoria di una colazione conservatrice e la nomina a Ministro delle finanze di un esponente islamofobo del Partito del Progresso. Oggi il Paese ha incrementato i rimpatri forzati degli immigrati indesiderati: quasi 7.000 nel 2014.
Stesso esito si teme per le elezioni del 2015 in Danimarca, dove qualora i conservatori del Partito del Popolo Danese ripetessero l’exploit delle scorse europee (26,6%) avrebbero un peso determinante in un futuro governo. Oggi il paese è sotto accusa dalle Nazioni Unite per le misure restrittive recentemente imposte ai profughi eritrei. La Svezia, che ha il primato di rifugiati siriani accolti, parrebbe l’ultimo baluardo dell’accoglienza scandinava, ma anche lì viene avanzando un partito dalle oscure origini neonaziste, quello dei Democratici Svedesi, che ha raccolto il 13% dei consensi alle elezioni generali di settembre.