La crisi del “live”

Steve Brown è il fondatore dei Trixter, band con cui negli anni 90 ha scalato le classifiche di Mtv. Oggi, quarantasettenne, continua a esibirsi con la sua band in festival da migliaia di persone ma, per sbarcare il lunario, non disdegna spettacoli a base di cover alle feste private. Ne parla Neil Shah sul “Wall Street Journal”, raccontando le condizioni dell’industria della musica dal vivo.  

“Non ci si può sempre esibire al Madison Square Garden -confessa Brown, che con i suoi Trixter aveva accompagnato in tour gruppi famosi come i Poison e gli Scorpions-, ma se tre anni fa mi avessero detto che sarei finito a suonare cover di Michael Jackson con indosso pantaloni spandex e una chitarra rosa al collo avrei detto ‘mai nella vita’”. Bobby Lynch, invece, è un giovane pianista molto eclettico che reinterpreta i classici per clienti di alto profilo, come la Ernst&Young, la Maserati e alcuni grandi casinò. D’inverno, però, non si nega qualche data nelle case di riposo, e commenta: “Mi sa che sono arrivato giusto in tempo per assistere alla morte della scena cover”. Non si può essere troppo schizzinosi: d’altra parte, i club che tenevano su la musica live ora preferiscono organizzare serate con i dj, giochi a quiz o feste karaoke. Lo conferma Sterling Howard dell’agenzia californiana Musician’s Contact, che per quarant’anni ha aiutato i suoi artisti a trovare date. “Oggi la gente preferisce trascorrere le serate a guardare gli amici sbronzarsi”.

È circa un decennio dunque, che le cose sono andate peggiorando per chi suona dal vivo, complice anche la recessione che ha colpito duramente i live club. I dati del National Endownment for the Arts (Usa) parlano di una disoccupazione salita al 9%: nel 2006 era al 5%. Brook Hansen, tastierista che fino al ’99 si esibiva nei casinò di Las Vegas a 700 dollari a serata, oggi suona nei piccoli bar, ma sogna di andarsene in Bahrein. “Lì la domanda è ancora forte. È come Vegas trent’anni fa”.

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