L’Unione Americana per le Libertà Civili (Aclu – American Civil Liberties Union) ha deciso di fare causa alla Conferenza episcopale statunitense. Il motivo? Il caso di una donna, incinta di 18 settimane e alle prese con una gravidanza travagliata, che è stata più volte rimandata a casa dopo che, in preda a dolori e perdite di sangue, si era recata presso l’unica struttura ospedaliera della sua contea di Muskegon, nel Michigan: il Mercy Health, un ospedale cattolico.
Per l’Unione, la decisione di non intervenire con un aborto avrebbe inutilmente messo a rischio la vita della paziente. Secondo gli specialisti che hanno esaminato il caso, la donna non aveva più alcuna possibilità di portare a termine la gravidanza.
Nelle motivazioni della denuncia vengono messe sotto accusa le direttive etico-religiose -emanate a tutti gli ospedali cattolici- che impongono alle strutture di non praticare aborti, né di consigliarne la pratica ai pazienti presso strutture differenti. Non solo: anche sulle misure contraccettive le strutture cattoliche osteggiano le direttive sanitarie nazionali.
In difesa della Conferenza episcopale statunitense, il presidente del Centro bioetico cattolico Usa John M.Haas ha definito “più sfumate di quel che si pensi” le direttive che la Conferenza emana alle proprie strutture, al punto da prevedere la possibilità di cure che potrebbero portare alla fine involontaria di una gravidanza, e ha scaricato sul personale dei singoli ospedali la colpa di aver interpretato troppo rigidamente le direttive etiche.
Ma, ricorda l’autore dell’articolo apparso sul New York Times il 3 dicembre, che dire dell’Ospedale di Filadelfia, espulso dalla rete degli ospedali cattolici dopo aver praticato un aborto per tutelare la vita di una paziente?
È solo l’ultimo capitolo di un’annosa battaglia che negli Stati Uniti vede contrapposti i diritti dei pazienti e i presidi sanitari cattolici, che coprono un sesto i tutti i posti letto disponibili degli Usa.