Cinquant’anni fa, proprio in questi giorni, gli americani rimasero col fiato sospeso per il destino di un bambino -Patrick Bouvier Kennedy, il primo bambino nato da un presidente in carica dal XIX secolo, e l’ultimo di John F. Kennedy. Era nato il 7 agosto 1963, con cinque settimane e mezzo di anticipo e nonostante i gesti eroici dei medici e l’uso di una camera iperbarica, morì 39 ore dopo. Oggi, Patrick probabilmente sopravvivrebbe e avrebbe una vita sana. Tuttavia, nonostante i progressi della medicina neonatale (o proprio grazie a questi) i problemi etici legati alle nascite premature rimangono.
Come spiega April R. Dworetz, neonatologa, in un accorato pezzo uscito sul “New York Times”, la maggior parte dei neonati estremamente prematuri sono destinati a gravi complicazioni. Molti avranno bisogno di cure per tutta la vita.
“Qualche mese fa ho curato una neonata con queste caratteristiche. Chiamiamola Miracle. È nata dopo sole 23 settimane di gestazione e pesava poco più di un chilo. Nonostante l’infausta prognosi, i suoi genitori hanno chiesto di rianimarla in sala parto. Così abbiamo fatto”. La dottoressa Dworetz spiega dettagliatamente cos’hanno dovuto fare nelle successive otto settimane, per tenerla in vita, (a furia di test di Guthrie sul tallone, alla piccola sono venute le cicatrici, per non parlare della necessità di aspirarle la trachea centinaia di volte, dei tubi in bocca e nello stomaco eccetera).
La madre era lì tutti i giorni e ha sviluppato un disturbo d’ansia. Il padre veniva una sola volta alla settimana. Non ce la faceva. Quello che la neonatologa vuole denunciare è un’impreparazione dei genitori di figli prematuri, che non vengono informati adeguatamente e per tempo rispetto alle situazioni che si possono venire a creare.
Mentre le questioni di fine vita relative agli anziani non sono più tabù, quando si tratta di neonati i genitori sono del tutto impreparati, anche per colpa dei medici che non sempre li rendono partecipi chiedendo via via un vero consenso informato.
Resta il fatto che lasciar andare qualcuno alla fine della vita non è come lasciarlo andare all’inizio. Talvolta la dottoressa Dworetz ha capito che doveva essere lei ad assumersi questo peso e, con il loro consenso, ha preso una decisione al posto dei genitori.
(nytimes.com)