Le case di riposo sono assimilabili a luoghi di detenzione? La domanda -scioccante- è stata posta da Jean-Marie Delarue, il Controllore generale dei luoghi di “privazione della libertà”, che il 25 febbraio ha reso pubblico il suo rapporto annuale.
Delarue ha fatto un parallelo tra le prigioni e gli ospedali psichiatrici, da una parte, e le case di riposo dall’altra, riconoscendo che, anche se giuridicamente “non hanno niente a che vedere” gli uni con le atre, sul piano del funzionamento “c’è tutto da vedere”.
La questione è quella del rapporto tra sicurezza e libertà in questi luoghi.
Secondo un’inchiesta del 2009 condotta dalla Fondatione Médéric Alzheimer, l’88% dei residenti è stata sottoposta a “misure di protezione” per evitare le fughe. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le unità “chiuse”, i codici di accesso e addirittura delle pulci nei vestiti fino ai braccialetti elettronici. Anche se nel caso degli anziani si preferisce parlare di “braccialetti di autonomia”, perché in alcuni casi permettono ad anziani con problemi cognitivi di uscire, i rischi di una deriva liberticida sono evidenti. Un altro metodo messo in discussione è quello della “camicia chimica”: la prescrizione di potenti calmanti, una sorta di sostituto della contenzione fisica della vecchia camicia di forza.
Talvolta questi strumenti vengono introdotti per sopperire alla carenza di personale, denuncia Joëlle Le Gall, presidente della Federazione delle associazioni di anziani e familiari, che aggiunge: “So che è una parola forte, ma io considero questi luoghi delle prigioni”. Le istituzioni rispondono che se di “privazione di libertà” si può parlare in alcune circostanze, questo avviene sempre e solo nell’interesse della persona.
La discussione è aperta.
(monde.fr)