Prigionieri della nuvola?

Benvenuti nell’era del cloud computing, che permette ai nostri portatili, smartphone e tablet di connettersi alla “nuvola” in qualsiasi momento per godere di una vasta gamma di servizi e applicazioni in remoto. Così comincia un articolo di Marie Lechner, giornalista di “Libération”, sui pericoli della nuvola. Il cloud computing è così confortevole, comodo, facile da usare, che il rischio è di diventare “prigionieri volontari della nube”, come ha messo in guardia il collettivo olandese Metahaven nel saggio “Gli schiavi della Nuvola”. Non tutti sanno come funziona la nuvola, ai più basta che funzioni. In realtà il meccanismo si fonda sul fatto che le nostre mail, le foto, le conversazioni, ecc. vengono memorizzati sui server di Google, Amazon o altre multinazionali. Dopodiché basta un buon accesso. Intanto però così si sta passando dall’architettura originale di internet, un arcipelago di isole, in cui i dati degli utenti erano sparsi su diversi server (casomai gestiti personalmente), a un’archiviazione centralizzata dei dati nelle mani di una manciata di grandi aziende.

Il rischio, già attuale, è quello di uno spossessamento dei dati personali e della perdita del loro controllo. Con un’aggravante: tutti i dati memorizzati da Facebook, Twitter, Apple, Amazon, Google, rientrano sotto la giurisdizione di Patriot Act, che costringe, nel caso, i fornitori di cloud a rilasciare i dati.
Qualche forma di resistenza è già in atto. Aumentano gli inviti a riprendersi i dati dalla nuvola per ricreare “una rete di pari”, piccoli anelli che vadano poi a formare un telaio ancora da tessere. Forse una visione un po’ utopica, ma che si iscrive in un movimento che sogna una rete alternativa a quella sempre più commerciale, centralizzata e sorvegliata da tutte le parti.

(liberation.fr)

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