Un tumore indolente

Nell’ultimo numero de “Le Scienze”, Marc B. Garnick, oncologo esperto di tumore alla prostata della Harvard Medical School, dedica un lungo e denso articolo al dibattito sul senso e l’efficacia degli screening oncologici per l’individuazione di questo tumore.
Da tempo, negli Stati Uniti, e non solo, se ne discute, ma lo scorso inverno la Us Preventive Service Task Force (Uspstf), che si occupa di valutare l’efficacia dei servizi clinici di prevenzione, ha lanciato quella che Garnick ha definito una “bomba” sostenendo che i maschi in salute dovrebbero sospendere i controlli perché i potenziali benefici non compensano i rischi reali di terapie anche molto invasive e dagli effetti non garantiti. Il test del Psa infatti non ci dice che una persona ha un tumore, ma solo che potrebbe averlo. Solo la biopsia segnala la presenza di un tumore, ma… anche qui: non è detto che il tumore sia pericoloso.
Già nel 2008 la Uspstf aveva raccomandato ai medici di interrompere i test agli over-75 anni asintomatici. I dati infatti dimostravano che a quell’età gli uomini con un tumore alla prostata hanno maggiori probabilità di morire di qualcos’altro. Ma a dirimere la questione sono soprattutto i rischi legati alla cura. Sinteticamente, l’intervento chirurgico causa incontinenza urinaria e impotenza; la radioterapia danneggia retto e vescica causando sanguinamento rettale e perdite fecali; per non parlare degli altri effetti, non meno rilevanti, come calo del desiderio, aumento di peso, vampate di calore, ecc.
Sono poi seguiti due studi (uno europeo e uno americano), da cui è risultato che gli uomini testati e quindi curati non vivevano più a lungo. Non solo: è emerso che l’Nns (number needed to screen), cioè quanti uomini bisognerebbe sottoporre a screening per prevenire un unico caso di morte da tumore alla prostata è di 1400.
Garnick racconta che già nel 1996 un suo paziente di 54 anni, il cui Psa era risultato alto, dopo essersi documentato da solo, aveva deciso -contro le sue raccomandazioni- di rinunciare a qualsiasi terapia. Oggi il suo livello di Psa è cresciuto, ma lentamente. In fondo, riconosce oggi Garnick, il suo paziente “aveva preso una decisione ponderata, evitando di barattare danni quasi certi con benefici incerti”.
All’epoca, tra l’altro, non si sapeva quello che si sa oggi e cioè che il tumore prostatico può avere un decorso molto differenziato. Aumentano infatti i casi di tumori “indolenti” che crescono così lentamente da non rendere necessaria alcuna cura per molto tempo, e forse per sempre. Di qui l’idea di un approccio che vada oltre il dilemma “curare o non curare” e che consiste in una sorta di “vigile attesa” o meglio di una “sorveglianza attiva con posticipo terapeutico”. In pratica il paziente non rinuncia alle terapie, ma le posticipa al momento in cui i sintomi indicano chiaramente la necessità di un intervento di qualche tipo. I dati indicano che il risultato non è influenzato negativamente dal ritardo. La partita, conclude Garnick ora passa ai medici: “Dobbiamo essere sempre chiari, con noi stessi e i pazienti, su quello che sappiamo davvero dal punto di vista scientifico… dobbiamo avere il coraggio di agire sulla base delle prove, non solo delle nostre convinzioni”.
(Le Scienze)

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