Anni ’90 per Massimo D’Alema

Massimo D’Alema ha detto, di passaggio da qualche parte, che “hanno fatto male a cavalcare tangentopoli”.
Beh, forse la questione va un po’ chiarita.
Primo. Le tangenti le prendevano tutti. Forse altrove non se n’erano accorti, in Emilia-Romagna sì. Il problema del finanziamento illecito dei partiti, così come quello di uno Stato che più corrotto non si può, così come quello di tantissimi cittadini che, specie se benestanti, sono usi a non pagare le tasse; il problema, cioè, dell’illegalità italiana è un problema nazionale (il che non vuol dire affatto che non è un problema, come volevano ieri i craxiani e oggi i berlusconiani) e come tale andrebbe trattato. Ora successe che i magistrati attaccarono solo i socialisti e i democristiani, e i comunisti la fecero franca. Non si sa ancora bene il motivo: perché tanti magistrati erano influenzati dal loro essere di sinistra? Perché i comunisti -e questo è certo- facevano le cose fatte bene e non andavano in giro con valigie piene di banconote? Perché -è stato detto anche questo- i socialisti erano diventati famelici per il lungo digiuno a cui per decenni gli altri due li avevano costretti? Sia come sia i comunisti furono risparmiati e cosa fecero? Si alzarono e puntarono il dito contro gli altri due gridando: “Loro, sono loro, i colpevoli”. Chissà perché qualcuno può pensare che un’azione che in qualsiasi gruppo umano verrebbe considerata infame (anzi, una delle più infami: il correo che per apparire innocente accusa con veemenza i compagni) se commessa in politica possa essere legittima. O forse il perché è semplice: sta in una tradizione che per raggiungere i propri fini, foss’anche nobili, il che è tutto da vedere, ha considerato legittimo l’uso di qualsiasi mezzo: la menzogna, la calunnia, la distruzione morale e fisica degli avversari. Fatto sta che una questione nazionale è stata piegata a questione di parte e questo in politica è ben più che un errore. Tant’è che il paese da allora è precipitato in un clima di guerra per bande.
Secondo. S’è discusso, per esempio a proposito dell’Algeria, se sia mai giustificabile un “golpe democratico”, una violazione, cioè, della costituzione, una rottura violenta del patto, per salvare la democrazia e la libertà da chi le sta usando per distruggerle. Forse però esiste anche un altro tipo di colpo di stato, di segno opposto, che punta a uno stravolgimento reale della democrazia nel rispetto formale delle regole costituzionali. Lo si potrebbe chiamare “golpe costituzionale”. In fondo, poi, non è di questo che da più parti si sospetta Berlusconi? E c’è del senso infatti: se si dovesse usare una vasta maggioranza parlamentare ottenuta con un cospicuo premio di maggioranza per stravolgere la costituzione sarebbe una specie di golpe che si consuma nel pieno rispetto delle regole. E non basterebbe il referendum successivo a cambiare la sostanza. Ora il 29 aprile del 1993, la data più infausta del dopoguerra, come ci spiegò bene Marco Boato in un’intervista di tanti anni fa, gli ex-comunisti, accodandosi al giustizialismo dei precursori dell’Idv, la Rete, e della Lega, decisero di far cadere il governo Ciampi (ancora non si sa da chi venne la spinta decisiva: Occhetto e D’Alema se la rinfacciano a vicenda) e di andare alle elezioni. Gli altri grandi partiti erano a pezzi, quasi nell’impossibilità pratica di presentarsi. La sinistra rappresentava solo il 35% dei voti. E l’altro 65 chi l’avrebbe rappresentato? Che azione è stata questa? Forse parlare di “piano eversivo”, come s’è fatto in questi anni da parte della destra e degli ex-socialisti, è esagerato, ma certo si stava creando una situazione di grave deficit democratico. Di nuovo un problema che chiamava a un’assunzione di responsabilità nazionale era stato piegato a calcolo di parte. Un calcolo, fra l’altro, che più sbagliato di così non si sarebbe potuto. Il risultato fu catastrofico: Berlusconi.
Detto questo, un consiglio a Massimo D’Alema: se mai dovesse ricapitare non si cimenti nel cavalcare, vada a piedi.

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