La campagna contro l’aborto

Dire che l’aborto è come Auschwitz non è solo un’offesa alle donne che patiscono un’interruzione di gravidanza, ma è un’offesa alla memoria dei morti di Auschwitz, uno sfregio ben peggiore delle martellate che un giovinastro può dare a delle lapidi in un cimitero. La banalizzazione di Auschwitz è talmente estrema che si fa fatica, e forse si fa pure peggio, a mettersi ad argomentare che “un miliardo di feti” non sono la stessa cosa che sei milioni di ebrei. Il colpevole di tale paragone ne porterà vergogna fino alla fine dei suoi giorni così come se l’è portata, e quello anche oltre, essendo un filosofo sempiterno, chi paragonò Auschwitz alla meccanizzazione dell’agricoltura.
Quel che fa impressione, invece, è proprio questo clima di tolleranza, di rapporti amichevoli, questa distribuzione preventiva di attestati di stima, di buona fede, a chiunque qualunque cosa dica. Sembra che non ci siano più cattive intenzioni, né moventi malvagi (a meno che non si sia musulmani, ovviamente). Alla fine l’impressione che dà questo sfoggio di buoni sentimenti, di “rispetto dell’altro” sempre e comunque (a meno che l’altro non sia musulmano, ovviamente), è che nel campo delle idee, qui da noi e soprattutto fra chi pensa di averne, tutto non valga più nulla. La lettera di Calvino che abbiamo pubblicato nel numero scorso era esemplare proprio per la chiusa: l’amicizia era rotta. Ricominciamo a togliere il saluto (pratica del tutto non-violenta, a scanso di equivoci). Sarà il segno che siamo tornati a credere, come i comuni mortali non hanno mai smesso di fare, che le idee hanno un valore e le parole comportano una responsabilità.

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