“C’è solo un nome, quasi sempre sbagliato. Niente di lui, niente di noi. A me basterebbe che quelle poche volte che mio padre è citato, quasi sempre in relazione alla famosa foto, non lo si facesse sbagliando nome e cognome: si chiamava Antonio e non Antonino, ci chiamiamo Custra e non Custrà. Non ho mai capito chi gli abbia cambiato il nome e chi abbia aggiunto quell’accento, ma da trent’anni lo vedo storpiato ovunque.” Faccio ammenda anch’io. Il piglio con cui parla mi colpisce. E’ cambiata molto: ha i capelli biondi e non più neri, è molto magra e al posto degli anfibi ha stivali chiari.
“Mia madre aveva ventitré anni, si erano sposati nel settembre del 1976 e vivevano da pochi mesi a Milano. Lei non riusciva ad ambientarsi, passava la maggior parte della giornata a casa a cucinare e al telefono con Napoli. Io ero stata concepita durante il viaggio di nozze in Germania, dove viveva una zia. Mio padre era felice, lui era il settimo figlio, il primo maschio dopo sei sorelle, e voleva un sacco di bambini. Non fece il poliziotto per sfuggire alla disoccupazione come quasi tutti allora, era diplomato e per un paio d’anni aveva anche studiato Ingegneria. Gli offrirono di stare in ufficio, ma gli piaceva la strada. Morì il 15 maggio dopo un giorno di coma e io sono nata il 1 luglio”.
Antonia parla veloce, diretta, senza cercare di attutire l’impatto delle cose che dice, non c’è nulla che smussi gli spigoli del suo racconto.
“Quel giorno è morto mio padre ed è morta mia madre. Lei è ancora con me, ma da trent’anni è un fantasma, è assente, ha paura di tutto: non esce, non si compra nulla, mai un viaggio, mai un ristorante. Tornò subito a Napoli con la salma di papà. Andò a vivere a San Giorgio a Cremano con sua madre. Da allora siamo noi tre: io, lei e la nonna. Per anni la nonna si è occupata di tutto, poi si è ammalata ed è toccato a me: sono l’uomo di casa, faccio la spesa, compro i vestiti, pago i conti. A ventun anni ho cercato un po’ di indipendenza, un lavoro che mi permettesse di mettere la testa fuori.
Ero iscritta al collocamento nelle categorie protette come figlia di una vittima del terrorismo. Mi chiamano al comune di Napoli per un posto, c’è da sostenere una prova. Stavo studiando sociologia e avevo fatto il liceo classico, ero contenta e curiosa: si sono ricordati di me, cosa mi faranno fare? Arrivo a palazzo San Giacomo per il colloquio, mi accompagnano in un atrio e mi fanno accomodare lì. Resto colpita dalla sporcizia: immondizia sparsa per terra, sacchi della spazzatura negli angoli, una sala d’attesa veramente terribile. Poi arriva un impiegato del comune con una scopa, me la allunga e mi dice: ‘Fammi vedere se sei capace di spazzare, poi ci sono da alzare quei sacchi, che così vediamo se hai abbastanza forza’. Resto interdetta, penso alla mia maturità classica e lo guardo con aria interrogativa; lui coglie al volo e mi dice: ‘II lavoro è di spazzina, abbiamo deciso di aprire alle donne’. Ci rimasi malissimo, questo era quello che lo Stato aveva da offrirmi, però non fiatai, presi la scopa e ottenni il lavoro. Così sono stata la prima spazzina donna di Napoli, l’ho fatto per due anni. Con me entrò un altro gruppo di ragazze, la città non era abituata e le umiliazioni non mancarono, io spazzavo in centro, in piazza del Plebiscito, e i ragazzi mi sfottevano, mi seguivano, fischiavano, ‘ma come scopi bene…’. Sono orgogliosa di averlo fatto, non lo nascondo, anzi dico sempre: ‘Ho iniziato come spazzina’. Alla fine mi conoscevano tutti, ero meticolosa, pulivo come fossi a casa e mi personalizzavo la tuta blu: a Natale mettevo gli accessori rossi e appendevo le palline sul carrello e intorno al secchio. Poi ho fatto un concorso al ministero dell’interno e ho cominciato a lavorare in un ufficio della Polizia ferroviaria. Il primo a occuparsi di me fu Gianni De Gennaro, il capo della Polizia, proprio la mattina della medaglia. Mi chiese se mi trovavo bene: ‘No, sto in un ufficio scuro, tetro, che si occupa di malattie, se devo essere onesta mi sento soffocare’. Mi sorrise e basta, ma sei mesi dopo mi trasferirono alla direzione interregionale del Viminale e so che lo devo a lui.” …
A parlare è Antonia Custra, figlia di Antonio Custra, poliziotto, colpito per strada il 14 maggio 1977 da manifestanti che aprirono il fuoco contro le forze dell’ordine. Il brano è tratto dal libro di Mario Calabresi Spingendo la notte più in là, storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Mondadori 2007. Un bel libro. Lettura obbligatoria per chi negli anni Settanta teorizzò o praticò la lotta armata e l’omicidio politico al fine della rivoluzione comunista. E per chi, come il sottoscritto, il pomeriggio del 17 maggio 1972 si trovava all’uscita di una grande fabbrica a un migliaio di chilometri da Milano con un tazebao in cui dava notizia agli operai che un atto di giustizia proletaria era stato compiuto, venendosene via un po’ compiaciuto che qualche operaio, su trentamila circa, chiedendo frettolosamente chi fosse stato ucciso, alla risposta: “Un commissario”, avesse detto: “Ah, bene”.
(Gianni Saporetti)
“Mia madre aveva ventitré anni, si erano sposati nel settembre del 1976 e vivevano da pochi mesi a Milano. Lei non riusciva ad ambientarsi, passava la maggior parte della giornata a casa a cucinare e al telefono con Napoli. Io ero stata concepita durante il viaggio di nozze in Germania, dove viveva una zia. Mio padre era felice, lui era il settimo figlio, il primo maschio dopo sei sorelle, e voleva un sacco di bambini. Non fece il poliziotto per sfuggire alla disoccupazione come quasi tutti allora, era diplomato e per un paio d’anni aveva anche studiato Ingegneria. Gli offrirono di stare in ufficio, ma gli piaceva la strada. Morì il 15 maggio dopo un giorno di coma e io sono nata il 1 luglio”.
Antonia parla veloce, diretta, senza cercare di attutire l’impatto delle cose che dice, non c’è nulla che smussi gli spigoli del suo racconto.
“Quel giorno è morto mio padre ed è morta mia madre. Lei è ancora con me, ma da trent’anni è un fantasma, è assente, ha paura di tutto: non esce, non si compra nulla, mai un viaggio, mai un ristorante. Tornò subito a Napoli con la salma di papà. Andò a vivere a San Giorgio a Cremano con sua madre. Da allora siamo noi tre: io, lei e la nonna. Per anni la nonna si è occupata di tutto, poi si è ammalata ed è toccato a me: sono l’uomo di casa, faccio la spesa, compro i vestiti, pago i conti. A ventun anni ho cercato un po’ di indipendenza, un lavoro che mi permettesse di mettere la testa fuori.
Ero iscritta al collocamento nelle categorie protette come figlia di una vittima del terrorismo. Mi chiamano al comune di Napoli per un posto, c’è da sostenere una prova. Stavo studiando sociologia e avevo fatto il liceo classico, ero contenta e curiosa: si sono ricordati di me, cosa mi faranno fare? Arrivo a palazzo San Giacomo per il colloquio, mi accompagnano in un atrio e mi fanno accomodare lì. Resto colpita dalla sporcizia: immondizia sparsa per terra, sacchi della spazzatura negli angoli, una sala d’attesa veramente terribile. Poi arriva un impiegato del comune con una scopa, me la allunga e mi dice: ‘Fammi vedere se sei capace di spazzare, poi ci sono da alzare quei sacchi, che così vediamo se hai abbastanza forza’. Resto interdetta, penso alla mia maturità classica e lo guardo con aria interrogativa; lui coglie al volo e mi dice: ‘II lavoro è di spazzina, abbiamo deciso di aprire alle donne’. Ci rimasi malissimo, questo era quello che lo Stato aveva da offrirmi, però non fiatai, presi la scopa e ottenni il lavoro. Così sono stata la prima spazzina donna di Napoli, l’ho fatto per due anni. Con me entrò un altro gruppo di ragazze, la città non era abituata e le umiliazioni non mancarono, io spazzavo in centro, in piazza del Plebiscito, e i ragazzi mi sfottevano, mi seguivano, fischiavano, ‘ma come scopi bene…’. Sono orgogliosa di averlo fatto, non lo nascondo, anzi dico sempre: ‘Ho iniziato come spazzina’. Alla fine mi conoscevano tutti, ero meticolosa, pulivo come fossi a casa e mi personalizzavo la tuta blu: a Natale mettevo gli accessori rossi e appendevo le palline sul carrello e intorno al secchio. Poi ho fatto un concorso al ministero dell’interno e ho cominciato a lavorare in un ufficio della Polizia ferroviaria. Il primo a occuparsi di me fu Gianni De Gennaro, il capo della Polizia, proprio la mattina della medaglia. Mi chiese se mi trovavo bene: ‘No, sto in un ufficio scuro, tetro, che si occupa di malattie, se devo essere onesta mi sento soffocare’. Mi sorrise e basta, ma sei mesi dopo mi trasferirono alla direzione interregionale del Viminale e so che lo devo a lui.” …
A parlare è Antonia Custra, figlia di Antonio Custra, poliziotto, colpito per strada il 14 maggio 1977 da manifestanti che aprirono il fuoco contro le forze dell’ordine. Il brano è tratto dal libro di Mario Calabresi Spingendo la notte più in là, storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Mondadori 2007. Un bel libro. Lettura obbligatoria per chi negli anni Settanta teorizzò o praticò la lotta armata e l’omicidio politico al fine della rivoluzione comunista. E per chi, come il sottoscritto, il pomeriggio del 17 maggio 1972 si trovava all’uscita di una grande fabbrica a un migliaio di chilometri da Milano con un tazebao in cui dava notizia agli operai che un atto di giustizia proletaria era stato compiuto, venendosene via un po’ compiaciuto che qualche operaio, su trentamila circa, chiedendo frettolosamente chi fosse stato ucciso, alla risposta: “Un commissario”, avesse detto: “Ah, bene”.
(Gianni Saporetti)