L’America ci è già passata. Oggigiorno le persone sembrano non ricordarsi della “calda estate” del 1967, quando le sommosse si diffusero dalla costa est alla ovest e H. Rap Brown coniò la frase “Burn Baby Burn!” (Brucia piccola, brucia) a Newark nel New Jersey. Si riferiva allo squallore delle case popolari in cui tantissimi afroamericani vivevano e alle topaie che non potevano sopperire nemmeno ai bisogni primari della comunità: acqua, elettricità, raccolta rifiuti, negozi, lavoro, tutela contro il traffico di droga per le strade, scuole sicure… e questo è solo l’inizio.
Articolo di Michael Walzer Tradotto da Stefano Ignone
Racconto di due città Sono cresciuto a Johnstown, in Pennsylvania, e nel periodo in cui ci sono vissuto, anni Quaranta e primi Cinquanta, era una città dell’acciaio. A partire dal 1941, poi, era diventata anche una città sindacalizzata. Johnstown era stata in precedenza una roccaforte repubblicana, ma da quando gli operai dell’acciaio avevano votato -con una proporzione di quattro su cinque- per lo Swoc, lo Steel Workers Organizing Committee (il Comitato Organizzativo degli Operai dell’Acciaio) era diventata fermamente democratica. All’epoca, Harry Truman tenne un discorso dal retro di un vagone ferroviario. Era il 1948 e conquistò il voto cittadino con un ampio margine. Oggi Johnstown è una città della Rust-Belt, i laminatoi hanno chiuso, e la popolazione si è ridotta ai due terzi rispetto a quella degli anni Quaranta. Oggi vivo a Princeton, nel New Jersey, una città universitaria, dove abitano tanti medici e avvocati benestanti; è presente anche un significativo gruppo di broker e banchieri che tutti i giorni fanno i pendolari per andare a New York. Princeton non sarà tra le prime dieci città più ricche d’America, ma certo è in alto in quella classifica. Tra i residenti ci sono anche minoranze di neri e ispanici, ma è una comunità perlopiù bianca, dove si guadagna bene. Queste due città costituiscono un esempio paradigmatico dell’esito delle elezioni del 2016. A Johnstown si è votato per Trump con un rapporto di due a uno, mentre Princeton ha votato per Clinton con un’incredibile proporzione di otto a uno. Non è sempre andata in questo modo, né è in questo modo che le nostre vecchie teorie sulle politiche di classe ci hanno spiegato dovesse andare. La base sociale del Partito democratico attualmente consiste di professionisti, uomini e donne, di una piccola ma crescente parte di gente delle grandi aziende, e di una coalizione di minoranze, prevalentemente neri e ispanici, fortemente motivata ma non sufficientemente mobilitata. Insieme, tutti questi gruppi potrebbero anche rappresentare una maggioranza elettorale, ma in pratica riescono a esserlo solo a fasi alterne, per quanto riguarda le elezioni presidenziali, e ancora meno frequentemente nelle elezioni locali e statali. La vecchia classe operaia industriale non costituisce più la maggioranza nel Partito democratico; neanche i lavoratori sindacalizzati possono essere considerati elettori democratici sicuri. La storia che ci racconta questo paragone tra Johnstown e Princeton ha avuto una lenta evoluzione nel corso di questi ultimi quarant’anni. Il suo culmine, nella vittoria di Trump nel 2016, è comunemente interpretata come una reazione: in primo luogo a un grande fallimento e poi a un successo solo parziale dei democratici e della sinistra negli anni recenti. Parliamo del fallimento nel gestire gli effetti economici della globalizzazione, che ha provocato frustrazione e rabbia per i posti di lavoro sfumati, per i sussidi perduti, per le città in declino, e per una mobilità sociale rivolta ormai solo verso il basso. E dunque le elezioni sarebbero state perse a causa della situazione economica; qui, il problema è di classe. In secondo luogo, abbiamo il successo (limitato) della affirmative action, delle azioni positive che hanno visto l’arrivo su vasta scala di migranti ispanici e asiatici e l’inizio di una importante campagna contro gli omicidi a opera della polizia e la carcerazione di massa. Questo ha generato risentimento da parte dei bianchi. E dunque le elezioni sarebbero state perse a causa del razzismo. Aggiungerei le conquiste del femminismo e dell’emancipazione gay, che potrebbero essere considerate tra le maggiori vittorie della sinistra della nostra epoca e, tuttavia, hanno generato un fastidio e talvolta un’ostilità vera e propria tra molti americani religiosi. E dunque le elezioni sono state perse a causa di una reazione della cultura tradizionalista. Da questo breve resoconto, si potrebbe tracciare un ritratto dell’elettore-tipo di Trump: ex operaio delle industrie dell’acciaio che magari ora lavora in un ipermercato Walmart, che ha maturato un odio per gli omosessuali e si è convinto che l’affirmative action non faccia altro che dare buoni posti di lavoro a neri scansafatiche. Ecco, si tratta proprio del tipo di caricatura che dovremmo respingere, perché i fenomeni che ho descritto influenzano le persone in maniere molto differenti e se è certamente vero che talvolta le questioni di classe, etnia e cultura, si sovrappongono, ci sono anche delle divergenze: ci sono lavoratori frustrati che hanno scelto Bernie Sanders, americani disoccupati o sotto-occupati, molti dei quali neri, che hanno votato per Hillary, e persino alcuni cristiani evangelici che hanno punti di vista di sinistra su questioni sociali ed economiche. E comunque ricordiamoci sempre che il vero elettore modello di Trump è il bravo borghese.
Il Vietnam e il dopo Classe, etnia e cultura sono alla base di ogni spiegazione generale di questa svolta a destra -e questo non vale solo per gli Stati Uniti, ma anche per i partiti di centro-sinistra dell’Europa occidentale. Direi che lo spostamento da una base elettorale operaia a una composta da professionisti è oggi maggiormente evidente in due paesi: gli Stati Uniti, appunto, e Israele, un altro paese dove il tema della guerra e della sicurezza nazionale ha giocato un ruolo importante. Comincerò con quest’ultimo tema, concentrandomi sugli Stati Uniti, e non perché ritenga che questi problemi siano più importanti degli altri (cui arriverò), ma perché possono aiutare a rappresentare la difficoltà della situazione in cui ci troviamo. La svolta a destra della politica americana ha avuto inizio a metà anni Settanta, dopo il crollo del radicalismo degli anni Sessanta e la fine della guerra del Vietnam; lo scivolamento, in Israele, è iniziato pressapoco nello stesso periodo, dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973. In entrambi i casi, la sinistra era stata accusata di non essere patriottica, di essere morbida con il comunismo e filo-araba. Il Partito democratico -certo non un partito di sinistra, ma che comunque rappresenta quel poco che c’è negli Stati Uniti di centrosinistra- era stato colpito dalle medesime accuse: debole sul tema della sicurezza e inaffidabile nel gestire le minacce esterne. Avevo già assistito a questo modo di etichettare la gente di sinistra e i democratici a Cambridge, nel Massachusetts, nel 1967 -che potrebbe costituire un altro “racconto di una città”. Gli attivisti pacifisti avevano organizzato un referendum sulla guerra del Vietnam e il 40% degli elettori cittadini avevano votato contro. Non una vittoria, ma certo una percentuale significativa, considerando che i soldati statunitensi erano ancora impegnati in battaglie sanguinose. Nell’analisi di un giovane neolaureato in sociologia, che successivamente avrebbe scritto su “Dissent”, quel voto era premonitore di cambiamenti politici all’orizzonte. Gli attivisti pacifisti (io ne facevo parte) persero in ogni quartiere operaio della città. Più era alto l’affitto che pagavi o il valore della tua casa, maggiori erano le probabilità che avresti votato contro la guerra. La “nostra” base elettorale era composta pressappoco dallo stesso tipo di persone che avrebbero votato in massa per Hillary Clinton a Princeton sessant’anni dopo. Intanto avevamo perso il sostegno delle persone che avrebbero votato per Trump a Johnstown -anche se, nel 1967, per la maggior parte avevano ancora buoni impieghi. Sono successe molte cose da quel 1967. Ma il senso comune per cui la sinistra e il Partito democratico non si impegnano per “i nostri soldati” e non sono duri con i nostri nemici, è rimasto immutato. Se ne sentono gli echi nelle promesse di Trump di incrementare la spesa per un esercito “impoverito” dall’amministrazione democratica, e di rimuovere ogni limite al bombardamento dell’Isis in Siria e in Iraq e alla guerra dei droni. Lascio ai democratici l’onere di rispondere a queste accuse loro rivolte. Ma che dire della risposta della sinistra -inclusa quella interna al Partito democratico? La prima cosa da dire è che una risposta ci dovrebbe essere. Può aver senso, politicamente, concentrarsi sulle questioni economiche -è l’economia, stupido!- questo però lascia le persone di sinistra sprovviste di cose coerenti da dire sullo sciovinismo dell’America all’estero e al contempo non dà alcuna indicazione sul nostro impegno a difendere i nostri concittadini, quando una difesa si rende necessaria. Il disinteresse della sinistra per le questioni di politica estera era già evidente nella campagna di Bernie Sanders e tale è rimasto all’emozionante convention del 2017 dei ringiovaniti (letteralmente) Democratic Socialists of America. Negli incontri dei Dsa si sono discusse molte risoluzioni, ma solo una era relativa alla politica estera: quella che invocava il boicottaggio di Israele. Non una parola su Siria, Afghanistan, Iraq, Yemen, Corea del Nord, Venezuela, Ucraina, né sulla Russia di Putin -niente (in passato, i Dsa avevano adottato alcune prevedibili posizioni in politica estera, come quelle contrarie ai bombardamenti con i droni in Yemen, Somalia e Pakistan). Forse è stato un bene il silenzio di quella convention, visto che la visione del mondo che sta dietro alla proposta di boicottare Israele avrebbe potuto dar luogo a posizioni diciamo strane nel caso degli altri paesi citati. Eppure, a un certo punto, la sinistra dovrebbe delineare una politica estera internazionalista, coerente con l’impegno ad assicurare la sicurezza e il benessere dei nostri concittadini. Lo slogan dell’antimperialismo, che in genere si traduce nell’odio per Israele, e per gli Stati Uniti, ovviamente non funziona.
Le politiche di inclusione Le politiche interne della sinistra degli ultimi decenni sono state estremamente frammentarie. Perlopiù sono state volte a includere gli esclusi (soprattutto delle minoranze, eccetto le donne) e a far loro acquisire una piena cittadinanza. Questo impegno ha fatto appello a rivendicazioni particolaristiche, come il vecchio “nero è bello”; per questo si è iniziato a parlare di “politiche dell’identità”. Riabilitare identità marginalizzate e umiliate è un dovere morale e merita il nostro sostegno politico, né dovremmo temere il particolarismo, quando è al servizio dell’uguaglianza. Ma il termine “politiche identitarie” è fuorviante, perché la stragrande maggioranza di chi si impegna in queste politiche non mira a un’esaltazione del proprio gruppo (la mia identità sopra le altre), ma alla sua inclusione. Vogliono far parte della comunità nazionale; vogliono diventare anch’essi, al pari degli altri, dei patrioti americani. La sinistra dovrebbe sempre sostenerli, anche se abbiamo obiettivi ulteriori (e alcuni di noi qualche preoccupazione rispetto al patriottismo).
Pensiamo alla comunità politica statunitense come a uno spazio chiuso, i
cui abitanti originari erano protestanti anglosassoni bianchi. Ebbene,
nel corso dei secoli, questo spazio è stato invaso: prima dai cattolici
irlandesi, poi da quelli slavi e italiani, poi dagli ebrei, dalle donne,
dagli operai delle industrie, dagli afro-americani, dagli ispanici,
dagli asiatici, dagli americani gay, dai musulmani… L’elenco è lungo.
Questa è la storia americana, e non è finita, in primo luogo perché
molti di questi invasori non sono ancora riusciti a ottenere un posto
nella società con pari diritti e, in secondo luogo, perché ci saranno,
ci dovranno essere, ulteriori invasioni, in risposta a nuove
esclusioni.
Le nuove esclusioni sono di cruciale importanza per comprendere la politica americana oggi.
Vorrei cominciare, dunque, dalle battaglie politiche di queste ultime
quattro-cinque decadi, quelle che conosco meglio. Tutti i recenti
movimenti per l’inclusione -diritti civili, femminismo, diritti degli
omosessuali- hanno rappresentato un successo parziale. Le
discriminazioni etniche e di genere sopravvivono e sono forti negli
Stati Uniti. Negli ultimi mesi abbiamo osservato la comparsa di nuove -e
il ritorno di vecchie- forme di intolleranza: l’odio per i musulmani e,
di nuovo, l’odio per gli ebrei. Eppure, dobbiamo al contempo
riconoscere che oggi esiste una classe media nera più forte di quanto
non sia mai stata negli Stati Uniti; che le donne sono ormai presenti
nelle professioni, nel management delle grandi aziende e nella politica;
e che il matrimonio gay è popolare e ben accetto presso la maggioranza
degli statunitensi. Queste sono vittorie, per quanto incomplete, e per
conseguirle è stato necessario molto duro lavoro “politico”.
E allora, perché l’America non è diventata una società più egualitaria
di quanto non fosse prima di tutte queste battaglie politiche?
Abbiamo ottenuto una serie di vittorie compartimentate, e nel frattempo
non abbiamo potuto far altro che assistere a un aumento delle
disuguaglianze. Una spiegazione comune è che l’esaltazione del gruppo
-il nazionalismo nero e il femminismo radicale ne sono esempi tipici-
avrebbe alienato un gran numero di americani, principalmente bianchi e
religiosi, rendendo così possibili le vittorie della destra. Se questo è
davvero un fattore, sospetto non sia tra i più rilevanti, visto che la
grande maggioranza degli attivisti neri e delle donne si sono sempre
appellati, come già aveva fatto Martin Luther King, a valori dell’animo
umano e ai testi “sacri” della storia americana: la Dichiarazione di
indipendenza e la Costituzione. Razzismo e sessismo, forse, risultano
spiegazioni migliori: molti americani erano ostili all’inclusione
sociale anche prima che iniziassero queste lotte.
Ci sono tuttavia esempi di politiche alienanti, connessi a queste lotte, di cui dovremmo parlare.
Le conquiste dei diritti civili dei neri, per esempio, richiedono
cambiamenti radicali nell’applicazione della legge: fine di ogni
razzismo da parte degli agenti e della carcerazione di massa, una forza
di polizia che rispecchi la popolazione su cui deve vigilare, rifiuto
della militarizzazione del Corpo, un addestramento migliore e una
maggiore disciplina nell’uso delle armi da fuoco. Sono tutti obiettivi
di critica importanza, ma certo non richiedono, né giustificano, che dei
movimenti politici adottino lo slogan dell’Acab, “All Cops Are
Bastards”. Né è d’aiuto che si chiamino i poliziotti “pigs”, maiali. È
in questo modo che si perde l’appoggio di quei tanti americani che
vedono la polizia come il soggetto che li protegge -cosa che, di fatto,
spesso accade.
Allo stesso modo, la lotta per l’eguaglianza di genere impone la critica
della famiglia patriarcale. È una critica che molti americani, inclusi
tanti padri americani, sono disposti a sostenere. Ma se si estende la
critica alla famiglia identificata come “normale”, e dunque imposta, si
perde il sostegno della maggior parte dei padri e delle madri americane.
Rispetto a entrambe le istituzioni, la famiglia e la polizia, la
domanda chiave è se vogliamo che le nostre lotte politiche siano
efficaci, o solo che siano espressive. Stiamo lavorando per costruire
una maggioranza o preferiamo indulgere in un’autoemarginazione?
Alcuni degli individui più emarginati provengono dalle classi di
“pensatori”, intellettuali impegnati a scrivere articoli e sviluppare
teorie. Spesso queste teorie sono estremamente settarie e, dal punto di
vista della politica pragmatica, spaventosamente stupide. Ma aiutano a
comprendere un punto, e cioè che non è vero che tutti gli esclusi, o
tutti gli outsider, vogliono davvero integrarsi nella società americana,
date le ingiustizie e la corruzione presenti nella vita quotidiana
negli Stati Uniti.
Molti militanti dei movimenti credono che “unirsi alla società” sia una
specie di accomodamento, l’accettazione di cose che non dovrebbero mai
essere accettate. E invece, concentrarsi sul gruppo escluso, aumentarne
la consapevolezza, riscrivere la storia, sottolineare la propria
“identità”; tutto questo, talvolta, diventa un’alternativa a
quell’accomodamento. In realtà, la presa di coscienza e tutto il resto
facilmente si accompagnano alle politiche di inclusione e proseguono
anche quando queste hanno successo. Non dovremmo pensare all’inclusione
come a un abbandono di tutte le nostre grandi aspirazioni, ma piuttosto
come a un nuovo inizio nella lotta contro ingiustizia e corruzione.
Grazie ai benefici immediati che questa inclusione porta agli uomini e
alle donne precedentemente esclusi, e alle opportunità politiche che si
aprono, “entrare” vale il prezzo dei compromessi che potrebbero essere
necessari.
L’inclusione è un valore che viene prima di tanti altri valori. C’è una
vecchia massima che recita “prima viene lo stomaco, poi viene la
morale”. Ma in democrazia, uomini e donne devono poter parlare
pubblicamente di giusto e sbagliato, devono potersi organizzare e
votare, prima di occuparsi di questioni di redistribuzione e di
assicurarsi che tutti abbiano avuto da mangiare. O, detto in altri
termini, la conquista dei diritti civili è in se stessa una
redistribuzione, è una redistribuzione di potere politico, ed è questo
che rende possibile ogni successiva redistribuzione. La cittadinanza
egualitaria, per metterla in parole povere, viene sempre prima del
socialismo, e di tutte le altre eguaglianze.
Il capitalismo
Torniamo alla domanda: perché l’ineguaglianza è andata aumentando nello
stesso periodo in cui neri, donne e gay americani hanno vinto le loro
battaglie politiche? È vero, le vittorie sono state radicalmente
incomplete; eppure, avrebbero dovuto avere un impatto più forte. Il
motivo per cui non hanno avuto l’impatto che avremmo voluto ha a che
fare con le caratteristiche del capitalismo contemporaneo -il
capitalismo finanziario, talvolta definito “tardo” capitalismo, anche se
temo si tratti di un aggettivo fin troppo ottimistico. In questo
momento, sono i capitalisti che stanno vincendo la lotta di classe. Oggi
il capitalismo è un modello di successo -per i capitalisti, che hanno
incrementato enormemente la loro fetta di ricchezza americana. E il
prezzo di questo successo, per un enorme numero di statunitensi, è una
vita di estrema vulnerabilità economica. È questa la nuova versione
dell’esclusione.
Ciò che è accaduto è che si è venuta a creare una classe di uomini e
donne totalmente disorganizzata, che è stata spinta fuori o ai margini
della società americana. A differenza della classe operaia industriale,
queste persone non si trovano vicine ai mezzi di produzione, dove è
facile organizzarsi. Sono sparpagliate, disperse, la maggior parte di
loro è tagliata fuori dal mondo produttivo, occupata (o disoccupata) in
un’economia dei servizi decentralizzata. Ma i loro problemi sono comuni.
Circa sessanta milioni di americani svolgono lavori per cui
percepiscono meno di 15 dollari all’ora; molti vivono al di sotto della
soglia di povertà -e ancora più americani sono prossimi a quella soglia,
privi delle risorse per affrontare qualsivoglia imprevisto: una
malattia grave, un licenziamento, una minaccia di pignoramento, un
incendio, un uragano. Neri e ispanici costituiscono una parte
sproporzionata di questi americani in difficoltà; il gruppo demografico
più ampio è costituito da bianchi, e più della metà del totale è donna.
Ma non dovremmo contarli. Tutte queste persone, il “precariato”, come
spesso vengono definite, hanno bisogno di nuove politiche di inclusione
-e ne hanno bisogno indipendentemente dalla loro etnia o dal genere.
Il capitalismo, come oggi vediamo,
può facilmente includere una piccola quota di donne e appartenenti alle
minoranze all’interno delle proprie strutture gerarchiche. Un numero
proporzionato di professionisti neri o di donne-manager non costituisce
una minaccia. Quello che non si può concedere è che la massa dei nuovi
esclusi si organizzi e si difenda.
Ecco perché la strategia contemporanea del capitalismo (altrettanto
importante delle sue dinamiche economiche) mira a distruggere i
sindacati, a ridurre il numero degli americani discriminati o poveri che
possono votare, e a tagliare tutti i servizi pubblici che consentono
l’attivismo politico, specialmente nell’istruzione pubblica.
È il successo di questa strategia che ha fatto crescere le gerarchie e
aumentato enormemente la distanza tra il mondo dei pochi e il mondo dei
molti, mettendo a repentaglio la nostra stessa democrazia.
Eravamo certi di aver vinto la battaglia per il voto -il suffragio
femminile e i diritti civili ai neri- e ora ci troviamo a doverci
difendere dall’attacco al diritto al voto in uno stato dopo l’altro.
Un numero significativo di questi “molti” ha votato per Donald Trump
sull’onda della rabbia e del risentimento. Sembra che la maggioranza
degli americani più poveri sia rimasta con i democratici, ma sono
proprio quelli che ora più rischiano di vedersi inibito il diritto a
votare. Il sospetto è che, in posti come Johnstown, Trump abbia trovato
molti suoi sostenitori tra le persone ai limiti -quelli cioè che magari
lavorano, ma senza alcuna garanzia e quindi sono spaventati e
arrabbiati. Ma attenzione a farne una caricatura: alcuni di questi hanno
invece sostenuto Bernie Sanders.
Cosa dovremmo dunque pensare degli elettori di Trump? La tradizionale
interpretazione marxista pensa che il populismo di estrema destra sia
sostenuto dalla piccola borghesia e dal sottoproletariato. C’è del vero
in questo sforzo di salvare il buon nome della classe operaia. Ma il
linguaggio tradisce una visione quanto meno problematica dei nostri
“altri”.
Disprezzo
Uno dei motivi per cui molti americani in difficoltà, specie se bianchi,
si sentono estranei a qualsiasi politica di sinistra, è che si
considerano emarginati e umiliati. Non solo: pensano che le “élites” che
si ergono a difesa delle minoranze provino per loro solo disprezzo. È
difficile valutare l’importanza di questa convinzione -se sia relativa,
ad esempio, al peggioramento del loro tenore di vita. Ma questa
convinzione è purtroppo vera. Vi citerò un solo esempio. Il semplice
fatto che questo disprezzo esista è più importante del suo eventuale
ruolo causale. Per chi si professa di sinistra, oggi e sempre, il
disprezzo per coloro con cui siamo in disaccordo non è né politicamente
saggio né moralmente giusto. Il recente libro Tell Me How It Ends di
Valeria Luiselli [Dimmi come va a finire. Un libro in quaranta domande,
La nuova Frontiera, 2017] è stato definito un’“eloquente e coraggiosa”
critica delle politiche di immigrazione statunitensi. Ha ottenuto
un’ottima accoglienza per via della “visione intelligente e chiara e
della straordinaria immaginazione letteraria” (si tratta di citazioni
promozionali, ma conosco lettori che mi hanno riferito giudizi
analoghi). Il libro è, in realtà, una critica persuasiva di politiche
che sicuramente sono criticabili, anche in modo feroce.
Ma ascoltate questo passaggio (intendo, leggetelo ad alta voce e
ascoltatevi). Luiselli commenta una foto, apparsa in un giornale, che
ritrae Thelma e Don Christie, cittadini di Tucson, in Arizona, intenti a
manifestare contro l’arrivo di immigrati clandestini:
Faccio uno zoom sulle loro facce e mi chiedo cosa sia passato per la
testa di Thelma e Don Christie mentre scrivevano i loro cartelli di
protesta. Si sono segnati sul calendario l’appunto “manifestazione
contro gli immigrati illegali”, accanto a “messa” e giusto prima di
“bingo”?
Un amico mi ha letto queste frasi e ha esclamato: “Ecco perché Hillary
ha perso le elezioni!”. Ebbene, magari non è stata l’unica ragione, ma
credo il mio amico abbia centrato un problema. Non possiamo costruire
una politica democratica di solidarietà con atteggiamenti di questo
tipo, e atteggiamenti di questo tipo sono piuttosto comuni nell’élite
intellettuale, e anche tra uomini e donne che si ritengono di sinistra.
Ancora più allarmante è il fatto che molti di quei militanti provino un
analogo disprezzo per uomini e donne che esprimono valide opinioni
progressiste sul tema dell’immigrazione, ma magari non condividono ogni
altra posizione di sinistra. Per esempio, c’è chi ha votato per Hillary
anziché per Bernie alle primarie o che vorrebbe rafforzare l’Obamacare,
ma magari non è del tutto convinto del sistema “single-payer”. L’idea
che siano proprio le persone più vicine a noi i nostri peggiori nemici
vanta una lunga tradizione a sinistra. Tuttavia il tipo di politica
conseguente a queste idee è proprio l’opposto di ciò di cui abbiamo
bisogno adesso.
Le coalizioni
Ogni battaglia per l’inclusione necessita di politiche di coalizione.
Anche le donne, che costituiscono la maggioranza della popolazione,
hanno tuttora bisogno di alleati nella lotta per la parità di genere.
Questo bisogno, per le minoranze, è anche maggiore. Agli outsider serve
l’aiuto degli insider, e ci sono sempre insider disposti ad aiutare. In
realtà, molti attivisti di sinistra sono insider -ben istruiti, e in
condizioni economiche confortevoli. Poiché anche io sono tra questi,
vorrei essere chiaro sul nostro ruolo. Noi agiamo sulla base delle
nostre convinzioni morali e politiche, ma spesso le persone che vorremmo
riuscire a organizzare hanno convinzioni differenti. Noi siamo
tendenzialmente laici; molti di loro sono religiosi. Noi siamo
internazionalisti; molti di loro sono americani patriottici. Loro hanno
figli nell’esercito e nella polizia; noi raramente.
Allora la prima coalizione che serve a una politica di sinistra è quella
tra chi è di sinistra e chiunque altro. Cioè chiunque altro sia
disposto a unirsi a noi, anche solo temporaneamente, su questo o quel
tema. Perciò, per esempio, alle primarie del Partito democratico,
dovremmo lottare affinché emergano candidati di sinistra forti, ma se
quei candidati perdono, dovremo coalizzarci con i vincitori -perché ci
saranno argomenti su cui possiamo comunque lavorare insieme.
Chi è di sinistra, oggi, deve puntare a formare (o aiutare a farlo) una
nuova forza politica multietnica, che includa le varie forme di
precariato e sia concentrata sui temi cruciali dell’inclusione, e
pertanto sul futuro della democrazia americana: diritto di voto, diritto
all’istruzione pubblica, al lavoro, alla sicurezza e alla
sindacalizzazione; alle cure sanitarie e al welfare. Ma questa forza
politica non sarà costituita da una classe “in sé”, cioè da una classe
che condivide una storia e una coscienza. Il precariato è altamente
differenziato al suo interno; questa battaglia richiede una coalizione
che non sarà facile organizzare. Dovremo mettere insieme una moltitudine
di organizzazioni che hanno agende e storie diverse: sindacati, chiese e
tutte le diverse associazioni impegnate nelle vecchie battaglie
politiche di inclusione, da Black Lives Matter a Now -tutti i
raggruppamenti e tutte le “identità”, da sinistra fino al centro. Sarà
un lavoro spesso frustrante, e alcuni a sinistra vorrebbero evitarlo a
favore di una “rivoluzione” che, sicuramente, lascerebbe fuori molti
americani progressisti, molti possibili alleati.
La purezza ideologica è il flagello della politica di sinistra ed è la
causa delle sue infinite scissioni; del terzo, quarto e quinto partito;
dell’ostilità verso persone che dovrebbero esserti alleate. Se fossimo
una potente forza politica in procinto di prendere il potere (cioè di
vincere le elezioni), bisognerebbe convincere tutti i nostri attivisti a
dedicarsi a un unico, coerente programma politico. Credo che la
tolleranza per la diversità e il disaccordo saranno necessari anche in
quel caso, ma bisognerebbe affrontare pure la questione della
disciplina. Imporne una oggi, che siamo piccoli e deboli, rischia di
alimentare il settarismo e di provocare la nostra stessa sconfitta. In
questa fase abbiamo bisogno di tutti gli alleati che riusciamo a
trovare.
Questo vale anche per gli americani in difficoltà, quelli il cui
benessere si suppone sia il nostro obiettivo. Il vecchio adagio di
sinistra per cui le piccole vittorie allontanerebbero le riforme
radicali (perché le persone stanno un po’ meglio) è un esempio di
narcisismo di sinistra. Stare un po’ meglio è un bene. Non possiamo
chiedere al precariato di aspettare la nostra rivoluzione, se è
possibile ottenere qualcosa prima; certo non se ci importa del loro
benessere. Quel che recita il vecchio detto sugli “strani compagni di
letto” è vero -se questa frase implica una relazione troppo stretta,
pensiamo allora a degli amici strambi, un poco inaffidabili con cui
dobbiamo collaborare temporaneamente perché abbiamo degli interessi
(casomai non delle convinzioni) in comune.
Fin tanto che riusciamo a rimanere fedeli alle nostre convinzioni,
questo lavoro in comune è il miglior modo per resistere alla deriva
antidemocratica. In questo momento non vedo altra strada.