Ogni anno, 4.000 irlandesi vanno in Inghilterra per abortire. Chi non può permetterselo è costretta a giocarsi le proprie chanche col sistema della nuova legislazione sull’aborto, approvata a fine luglio 2013: la “Legge per la protezione della vita durante la gravidanza”. Ne ha parlato il Guardian in un articolo e un editoriale, a partire da un recente caso di aborto negato: la storia di Kim.
Kim è il nome di fantasia che diamo a una giovane donna straniera, decisa a terminare una gravidanza dovuta a uno stupro subìto quando era ancora minorenne. Gli specialisti psichiatrici che l’hanno visitata ne hanno confermato le tendenze suicide; ciononostante, le è stato negato l’aborto. La ragazza, che aveva intrapreso uno sciopero della fame per richiamare attenzione, ha finito per partorire col cesareo alla venticinquesima settimana. E dire che la nuova legislazione, in vigore dal luglio 2013, era scaturita dal clamore provocato da un caso del 2012, quando Savita, dentista indiana cui era stato negato un aborto, era morta per un’infezione.
Oggi la nuova legge consentirebbe l’aborto nel caso sia a rischio la vita della madre, incluse le tendenze suicide. Anche se lascia qualche spiraglio del tutto assente dalla legislazione precedente, si tratta ancora di una normativa tra le più restrittive. Il Guardian ha avuto accesso alle linee-guida diffuse negli ospedali, che confermerebbero che il sistema, frapponendo lunghe trafile burocratiche e molteplici visite da più specialisti, sembra volto a scoraggiare qualunque tentativo di interrompere una gravidanza.
Secondo Veronica O’Keane, eminente professoressa di psichiatria, “costringere una donna a farsi esaminare da un minimo di quattro specialisti -quando non si arriva a sette, come nel caso di Kim- sulle proprie inclinazioni al suicidio è una pratica invasiva, che prende troppo tempo in un periodo di crisi esistenziale in cui bisognerebbe agire con rapidità”. Appena il mese scorso, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite aveva emanato una raccomandazione all’Irlanda affinché rivedesse una legislazione che tratta la donna incinta come “un recipiente, e nulla più”.