Belona Greenwood, da Norwich, Inghilterra, ci scrive delle iniziative per l’anniversario della Prima guerra mondiale e del dubbio che per i più giovani quel passato resti incomprensibile.
Cari amici,
una mia conoscente è madre di due ragazzini. Potrebbero essere i due giovani principi di una favola: l’uno chiaro, l’altro scuro. Nel tempo libero suonano la chitarra e la batteria in un gruppo fragorosamente disarmonico, hanno la ragazza, studiano per gli esami e comunicano tra loro mediante cenni della testa e mezze frasi. La madre li protegge con fervore, quasi fossero due fragili creature che potrebbero spezzarsi alla prima folata di vento. Ricordo di essermi chiesta come sarebbe stato per lei se i suoi figli fossero vissuti un centinaio d’anni fa, quando la prima guerra mondiale chiedeva ed esigeva che i giovani in buona salute si arruolassero come volontari. Quale pena avrebbe provato, salutandoli da un binario, mentre un treno li portava a un campo militare dove, durante la desolante messinscena di un attacco contro bersagli vivi, avrebbero imparato a prendere a baionettate degli spaventapasseri imbottiti; come, spediti al fronte scarsamente equipaggiati e troppo spesso provvisti di armi difettose, si sarebbero ubbidientemente lanciati all’attacco sotto il fuoco dell’artiglieria, le granate, il gas o le mitragliatrici o il fuoco dei cecchini, domando, in qualche modo, la loro paura mortale, e se ne fosse morto uno, se fossero morti entrambi, cosa sarebbe rimasto alla madre se non il vuoto; lo stesso vuoto di centinaia e migliaia di altre madri. Il sacrificio di intere generazioni, le vite solitarie di donne e ragazze private del tocco o della presenza di un uomo. Non furono soltanto quei giovani soldati ad essere assassinati in massa, ma il potenziale del futuro.
Estratto della lettera dall’Inghilterra pubblicata nel n. 210 di Una città.
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