Presto l’India avrà un quinto della popolazione mondiale in età da lavoro. Il punto è: cosa se ne farà? L’Economist dedica un lungo articolo alla questione, partendo da una grande impresa indiana, Frontline, a suo modo emblematica dei rischi che corre questo paese. Frontline, fondata a Patna, la capitale del Bihar, ha 86.000 lavoratori a libro paga: quasi tutti senza alcuna qualifica. Per il lavoro che fanno non serve: fanno le guardie di sicurezza. Oggi in India milioni di giovani uomini in uniforme siedono annoiati davanti ad edifici e negozi mentre il miracolo economico gli passa davanti, commenta l’Economist. Non è infatti così che l’Asia si è arricchita, ma con la manifattura. È dagli anni Novanta che si parla del “dividendo demografico” dell’India, ma oggi aumentano gli analisti che paventano una drammatica dissipazione di questo patrimonio, tanto più che i tassi di crescita sono già in calo rispetto all’inizio degli anni Duemila. Tra l’altro la combinazione di crescita lenta e esplosione demografica rischia di essere anche politicamente destabilizzante. I governanti ora iniziano a essere preoccupati, ma il rischio è che sia troppo tardi. Mentre la Cina ha subito messo tutti al lavoro, l’India per tutti questi anni ha preferito adottare politiche assistenzialiste per i più poveri, senza puntare sulla crescita di posti di lavoro minimamente qualificati. Nei prossimi dieci anni la popolazione in età da lavoro (15-64 anni) crescerà di 125 milioni di persone e la decade successiva di altri 103 milioni. Non tutti entreranno nel mercato del lavoro, alcuni continueranno a studiare, poi ci sono le donne che per due terzi non lavorano. Certo è che bisognerà creare almeno 100 milioni di nuovi posti di lavoro. Tra il 2002 e il 2012 la Cina ne ha creati 130 milioni. In India invece è successo che i programmi di sostegno pubblico abbiano addirittura fatto sì che qualcuno (soprattutto donne) lasciasse il lavoro. C’è poi il problema dei giovani più formati: solo la metà viene assorbita dal mercato. D’altra parte l’85% dei lavori sono in imprese “informali” o comunque temporanei. Solo il 16% degli indiani riceve un salario regolare. Insomma il problema, di nuovo, non è la quantità, ma la qualità del lavoro. Per dire, solo qualche milione di lavoratori è impiegato nelle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione, su una popolazione di mezzo miliardo.
Insomma, l’orizzonte non è sereno. In India non si vede la determinazione che ha fatto esplodere Corea del Sud, Taiwan e Cina. Altro che dividendo demografico, le probabilità che tutto finisca in uno spreco colossale sono altissime. Purtroppo perché qualcosa cambi bisognerebbe che cambiasse la testa dei politici e di chi conta, ma qui la religione e il mix di cultura gerarchica, politiche populiste e strutture familiari, se da un lato assicurano una certa stabilità, sul piano della crescita sicuramente non aiutano.
(economist.com)