Un giudice fa chiudere il siderurgico più grande d’Europa, un altro fa fallire l’Argentina. Si ricorre su tutto. Se cadiamo sul marciapiede il primo riflesso ci spinge a guardare, non già se una gamba è rotta, ma cosa ci ha fatto cadere, di chi è la colpa, se si potrà ricorrere. In ospedale i medici hanno già tre assicurazioni a testa, ne vorrebbero una quarta, una quinta, ma le compagnie vorrebbero togliere loro quelle che hanno già. Se muore qualcuno deve essere per forza colpa di qualcun altro. I funzionari di qualsiasi ufficio vivono nel terrore della responsabilità e le scartoffie firmate si moltiplicano. Se il figlio viene bocciato il genitore fa ricorso contro il professore, contro il preside, contro la scuola. Ci sono sindacati che non vedono l’ora di far ricorso al giudice e se ne vincono uno, esultano, lo si vede, quasi come una volta si esultava se uno sciopero difficile riusciva al 100%. Così chiunque abbia a cuore una causa. Un tempo si consideravano tutte le ingiustizie disgrazie, oggi ogni disgrazia la si considera un’ingiustizia. Nulla è più imputabile al caso o al destino, che non è che la combinazione, a volte fatale, del primo col carattere di ognuno. Le corti si moltiplicano. Gli esposti, i ricorsi, gli appelli anche. Si passano anni in attesa di esiti. Stiamo ormai tutti attaccati alle toghe dei giudici, piagnucolando: “Diritti, diritti, vogliamo i diritti”. Chissà se i teologi stanno valutando se dar fondamento alla possibilità, al momento, di un ricorso universale.